When you reach the end, nothing happens. 4000 kilometers, and then… nothing. One moment you’re on the saddle, head down, pedaling. The next, you brake and stop because you’ve made it. You’re done. You can breathe.
But around you, nothing changes. The world keeps spinning—it never stopped. You’re the one who disappeared for a few days, a couple of weeks, and now you’re surfacing again. No red carpet, no fanfare, not even applause to mark the line between the race and life. The finish line exists—there’s the gazebo, even the end of the square. You can’t go further. But the end—that, you have to invent yourself.
To be honest, in these races, it never really exists. The gazebo casts its shade over three people: someone dotwatching, someone sorting out dinner, someone resting after their ride. Someone might blow a horn to welcome the winner, but that’s the only tangible sign of an ending.
This is all to say that capturing the end of a race isn’t easy because there’s this extraordinary nothing. That’s exactly what happens as Joanna, the winner of VIA, is about to arrive on the evening of August 2nd. Ryan and I are drained from the last few days, struggling to come up with ideas.
We had caught up with her earlier that morning at the only bar in Volturara, documenting her resupply amid the usual cluster of local wise men. There was something concrete there, and there were people—village elders with curious, skeptical eyes. “All that way? On a bike? In two weeks?” one of them exclaimed. “Back in my day, I crossed Italy on a Vespa—remember, Maria?” another added. A third man with a hat chimed in, but he was talking about the mozzarella he’d just bought. A dog raised its head slightly to look around but mostly focused on staying within the shade of the porch.
At the finish, though, we don’t know what to do to capture the moment. We’re a little early, so we can come up with something. We park the car, mulling it over, and then—a revelation.
At the entrance to the square, the riders’ only way in, there’s a small group of locals: some from the sailing club, some from the CGIL office, some from the ANPI chapter. All of them are sitting, chatting in the cool evening air. We interrupt them without hesitation, asking for their help to welcome our hero properly.
Some of them have children in Turin, others go there to visit their grandchildren, and a few worked there for decades before returning home. I chat with them while Ryan, juggling Spanish, French, and Portuguese, manages just fine.
Joanna arrives, and our new friends all rise at once, breaking into applause. She has just enough time to glance over, maybe even half-smile—who knows—and then rides on toward the official finish line.
But that was the end.
🇮🇹
Quando arrivi alla fine, non succede nulla. 4000km e poi niente. Un momento sei in sella e pedali a testa bassa, il momento dopo freni e ti fermi perché sei arrivato, hai finito, ce l’hai fatta. Puoi respirare.
Intorno a te, però, non cambia niente. Il mondo continua a girare; anzi, non ha mai smesso, sei tu che ti sei assentato per qualche giorno, un paio di settimane, e ora ritorni a galla. Nessun tappeto rosso, niente fanfara, neanche un applauso che confermi la cesura tra la corsa e la vita: il traguardo esiste - c’è il gazebo, c’è persino la fine della piazza, non puoi andare oltre. Ma la fine – quella no, te la devi inventare tu.
A dire il vero non c’è mai, in queste competizioni. Il gazebo fa ombra a tre persone sedute, chi fa dotwatching, chi si occupa di ordinare la cena, chi si riposa dopo l’impresa. Qualcuno accoglierà la vincitrice suonando il corno, ma quello è l’unico segno tangibile della fine.
Tutto questo per dire che fotografare e riprendere la fine di una corsa non è facile, perché appunto c'è questo fantastico nulla. E' proprio quello che succede anche quando sta per arrivare Joanna, la vincitrice della VIA, la sera del 2 agosto. Ryan ed io siamo abbastanza provati dagli ultimi giorni, e fatichiamo a trovare soluzioni.
L’abbiamo intercettata di mattina all’unico bar di Volturara, dove abbiamo documentato il suo rifornimento in mezzo al solito capannello di saggi della zona. Lì c’era qualcosa di concreto, e c’era anche qualcuno – gli anziani del paese. “Tutta quella strada? In bici? In due settimane?” con gli occhi sgranati tra il curioso e il diffidente. “Ai miei tempi ho attraversato l’Italia in Vespa, ti ricordi Maria?”, aggiunge uno. Arriva un altro col cappello e si intromette, ma sta parlando delle mozzarelle appena comprate. Il cane muove un po’ la testa per guardarsi intorno, ma più che altro fa attenzione a non uscire dal cono d’ombra del portico.
Invece, all’arrivo non sappiamo che fare per immortalare la fine. Siamo in leggero anticipo, possiamo inventarci qualcosa. Parcheggiamo l’auto rimuginando, e poi l’epifania.
All’ingresso della piazza, passaggio obbligato per tutti i rider, c’è un capannello di signori: un po’ del circolo velico, un po’ della sede della CGIL, un po’ dell’ANPI, ma tutti seduti a chiacchierare al fresco della sera. Li interrompiamo senza remore, chiedendo di aiutarci ad accogliere la nostra eroina come si deve.
Qualcuno ha figli a Torino, altri vanno per trovare i nipoti, qualcun altro ci ha lavorato per trent’anni prima di tornare a casa. Io chiacchiero, mentre Ryan tra spagnolo francese e portoghese se la cava altrettanto bene.
Arriva Joanna, i nostri nuovi amici si alzano tutti di scatto e inizia l’applauso. Lei ha tempo di girarsi, forse fa anche un mezzo sorriso, chi lo sa, e prosegue verso il traguardo. Ma la fine era quella.
Edoardo Frezet
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